13/09/15

Vita spericolata - Vasco Rossi - 1983


Vasco Rossi


Vita spericolata



Vasco Rossi

Fonte: ondarock.it

Rossi Vasco nasce a Zocca (Modena) nel 1952, da mamma casalinga e padre camionista; da bambino vince il concorso "L'Usignolo d'Oro", più tardi si diploma ragioniere.

Nel 1975 fonda "Radio Punto Zocca", una delle prime radio private in Italia, e si fa apprezzare come dj, ma sogna di fare il cantautore. Scrive canzoni nella sua cameretta e pian piano, timidamente, inizia a farle ascoltare in giro, finché nel 1977 la Jeans gli produce 

il primo singolo, e l'anno dopo esce l'album Ma cosa vuoi che sia una canzone, distribuito nella sola Emilia Romagna, che passa praticamente inosservato. Il debutto di Vasco Rossi è un bel disco; a metà strada tra psichedelia acustica e rock cantautorale, racconta con 

uguale trasporto di ragazze difficili, di amori finiti o che stanno per finire, di sogni e anche di sociale. "Silvia" e "Tu che dormivi piano" sono dolci e straniati quadretti onirici di un mondo, quello femminile, che il (quasi) giovane Vasco cerca di capire tra riverberi e arpeggi 

acustici; sull'altro versante, è sferzante l'ironia sociale di "Ambarabaciccicoccò", e l'amara rassegnazione della sua controparte arrabbiata, "Ed il tempo crea eroi", country all'italiana al gusto di incazzatura proletaria. E poi c'è "Jenny e pazza", sette minuti di malinconia, 

ballata psichedelica con lungo assolo finale di moog à la Pfm che racconta un'altra storia dura, di incomprensione e disagio.

Il successivo Non siamo mica gli americani (1979), uscito per la Carosello, replica la stessa formula, con qualche apertura in più verso un rock sanguigno e chitarristico, e dei toni marcatamente più salaci. E' un'altra buona prova, forse superiore alla precedente, e 

rispetto a essa molto più "acida" dal punto di vista testuale: lo si intuisce fin dalla copertina, con una bandiera a stelle e strisce... bianca rossa e verde, e dalle memorabili "Fegato fegato spappolato" e "(per quello che ho da fare) Faccio il militare", inni allo scazzo più 

totale e patrimonio di una generazione, quella che esce dagli anni 70 e si avvicina agli 80, che ha perso ogni riferimento e ogni ideale e si è ritrovata a fare i conti con la propria individualità e il proprio individualismo, sospesi tra il sarcasmo indirizzato verso la mentalità 

bigotta e provinciale dell'italietta conservatrice e il nichilismo di versi come "La sera che arriva non è mai diversa dalla sera prima/...ci vuol qualcosa per tenersi a galla sopra questa merda/ e non importa se domani mi dovrò svegliare ancora con quel gusto in bocca". Ma 

se con questo disco il Rossi comincia a farsi notare, è soprattutto grazie a uno degli episodi più rock e al tempo stesso più dolci dell'album, un altro esempio di canzone-analisi su quel 

mondo femminile che Vasco osserva stupito: quell'"Albachiara" che di lì a qualche anno diventerà un inno da stadio facendo del rocker di Zocca un mito della musica popolare italiana.

Il terzo album è del 1980 e si intitola Colpa d'Alfredo. Il "personaggio Vasco" sta cominciando a formarsi, via via allontanandosi dall'immagine del giovane ingenuo, un po' scontroso e arrabbiato, per dare vita a quella del rocker politicamente scorretto, strafottente 

e straviziato. La title track, in certi passaggi quasi un plagio degli Who di "Baba O'Riley", racconta una storia di donne - sempre meno ragazzine innocenti o difficili e sempre più troie (sic) - e di negri (sic) nell'interland modenese (sic): quantomeno grottesco, di certo mai 

sentito in Italia. Per l'epoca è un bel pugno nello stomaco, ma il Rossi si può ancora permettere di cantare tutto quello che gli passa per la testa senza avvertire il peso che di lì a qualche anno comporterà l'essere diventato un mito per le giovani generazioni. Per il resto, 

il disco è equamente diviso tra numeri rock talvolta davvero duri ("Asilo Republic" è hardcore-punk allo stato brado) con testi ironici o nonsense ("Alibi" su tutte, dall'atmosfera allucinata) e ballate strappalacrime (la dolcissima "Anima fragile" per voce e pianoforte, la 

trasognata "Tropico del Cancro" ispirata alla letteratura beat). Il disco ottiene un grande successo, complici alcune stroncature da parte della critica: memorabile quella di Nantas Salvalaggio, dopo un'apparizione televisiva: "Vasco Rossi... Per descriverlo , mi ci 

vorrebbe la penna di un Grosz, di un Maccari: un bell'ebete, anzi un ebete piuttosto bruttino, malfermo sulle gambe, con gli occhiali fumè dello zombie, dell'alcolizzato , del drogato "fatto" [...] Gente della Tv, della stampa, del governo, ma quando faremo un'indagine seria, 

un calcolo approssimativo, di tutti i giovani che si sono "fatti", che si sono procurati un passaporto per l'altro mondo, sulle orme dei cantori dell'eroina, come quel tale Lou Reed, che a Milano si pronuncia giustamente Lùrid?".

Il nostro ormai richiama discrete folle nei suoi concerti, in cui è supportato dalla Steve Rogers Band di Massimo Riva e Maurizio Solieri. Ma è col disco successivo, Siamo solo noi (1981), che il nome di Vasco Rossi comincia davvero a essere sulla bocca di tutti, 

quantomeno dei giovani rockettari: sempre più virato verso l'hard-rock, sia nei pezzi più duri che nelle ballate, il disco bissa il successo del precedente, grazie alla potenza della title track, anthem generazionale per cori da stadio con alcuni tra i versi più immediati e 

coinvolgenti del nostro, dichiarazione di guerra alla vita borghese ("Siamo solo noi/ che non abbiamo più rispetto per niente, neanche per la mente/ Siamo solo noi/ che non abbiamo più niente da dire, sappiamo solo vomitare/ Siamo solo noi/ quelli che ormai non credono più a niente, e vi fregano sempre").

Con il lavoro successivo, il Rossi tenta il grande salto. Vado al massimo (1982), questo il titolo dell'album, è anche il titolo della canzone, un reggae sbilenco con refrain rock e testo completamente privo di senso, con cui il nostro si presenta, barcollante (davvero ubriaco o 

attore calato nella parte?), sul palco del tempio della canzone(tta) italiana, il Festival di Sanremo. Si classifica ultimo - dopo un esordientissimo Zucchero - come è giusto che sia; l'obbiettivo è comunque raggiunto, Vasco Rossi esce dalla nicchia dell'artista di culto, ora 

tutti sanno che c'è in circolazione questo personaggio poco raccomandabile da cui tenere lontani i propri figli. Va detto che Vado al massimo è uno dei dischi più belli di Vasco: abbandonate momentaneamente le eccessive ruvidezze hard-rock a favore di pezzi più 

"commerciali" ma mai troppo ruffiani, con testi al solito ironici e dissacranti quando non apertamente provocatori ("Splendida giornata" oltre alla title track), contiene anche alcune ballate davvero riuscite ("Canzone", commovente nella sua aria di rassegnata malinconia, "La noia" e "Ogni volta").

Il Rossi torna a Sanremo l'anno dopo, stavolta con un lentone che diventerà il suo inno più famoso (in Riviera andrà ancora male: penultimo, ma Vasco si aggiudicherà il Festivalbar). Tratta dal nuovo Lp Bollicine, "Vita spericolata" non ha bisogno di presentazioni; i suoi 

versi più celebri, "Voglio una vita maleducata/ voglio una vita come Steve McQueen/ voglio una vita che se ne frega/ che se ne frega di tutto sì", celebrazione del nichilismo di provincia di questo ragazzotto cresciuto a punk e oratorio, diventano patrimonio comune di chi negli 

scintillanti anni 80 ormai in pieno corso fa fatica a sentirsi a proprio agio (e la title-track fa riferimento a uno dei simboli della nuova generazione, la Coca-Cola dei paninari... anche se forse a voler essere maliziosi qualche doppio senso si trova). E poco importa se il buon 

Vasco, considerato ormai "il" rocker italiano, nei vizi e nei lustrini di questi anni 80 ci sta comodamente sprofondando; è il personaggio che conta, è la sua figura ancora magra e sbattuta, che si presenta sui palchi di tutta Italia con magliette sdrucite, look da tossico di 

strada (come sono lontani i futuri agghindamenti da pagliaccio...), capelli incolti e occhiali da sole anche di notte, aggrappato all'asta del microfono a urlarci dentro i suoi versi, spesso stridenti nella loro intimità rivelatrice del carattere fragile dell'uomo con l'immagine strafottente del personaggio (esemplare "Una canzone per te").

L'irruenza di questi concerti viene immortalata in un disco davvero bello, il live Va bene, va bene così (1984), che contiene oltre al nuovo lentone d'atmosfera che dà il titolo al lavoro (ancora una storia difficile, ancora un amore-non amore da trascinare con malinconia e 

rassegnazione), otto brani tra i più rappresentativi di questa prima parte di carriera del Rossi, suonati con grinta e passione da una band al massimo delle sue possibilità. Lo spettacolo è davvero hard-rocking, le chitarre la fanno da padrone e Vasco urla come un dannato...

Da questo momento in poi qualcosa comincia a incrinarsi. Evento scatenante è l'arresto del nostro per possesso di stupefacenti (sì, proprio la coca di "Bollicine"); Vasco sembra essersi spinto troppo in là e decide di darsi una ripulita (anche perché siamo pur sempre in Italia, 

essere drogati qui non è mai stato cool - e comunque 22 giorni di galera non fanno bene a nessuno). Cosa succede in città (1985) vira sul pop-rock da classifica, con una giusta dose di ritmiche funk e le immancabili due o tre ballatone vecchio stile; grazie anche ai testi, 

forse per l'ultima volta più divertiti e ironici che altro ("Ti taglio la gola" è in questo senso davvero un capolavoro), l'album è comunque piacevole, ma già si sente la mancanza di quella grinta e di quella strafottenza che avevano caratterizzato la produzione del Rossi 

negli anni appena trascorsi. E il successivo C'è chi dice no (1987) conferma la tendenza: aumenta il numero di brani riflessivi (invero forse i più riusciti, tra cui l'opener "Vivere una favola" e la ballata "Ridere di te"), compaiono per la prima volta testi pessimisti e cupi, le 

tastiere atmosferiche diventano padrone del campo. Vasco si lascia definitivamente alle spalle il passato da giovane rocker incazzoso e indossa, guardare la foto di copertina per credere, i panni del cantautore introverso, che passa da riflessioni più o meno riuscite su 

non ben specificati mali oscuri che ammorbano il mondo ad agrodolci pensieri sul tempo che passa, con poche puntate verso il rock che fu ("Lunedì", quantomeno divertente, ma anche l'inutile "Blasco Rossi").

Liberi liberi (1989) è forse il peggior disco fino a qui, con solo un paio di buoni spunti ("Dillo alla luna", "Tango della gelosia") e tutto il resto sperso tra tentativi di revival rock e innocui poppettini.

Com'è prassi, all'annacquarsi della genuinità della proposta musicale del nostro corrisponde un suo successo sempre maggiore, che lo porta a riempire gli stadi nel tour del 1990; alla prima generazione di fan del rocker emiliano, che continua a seguire il suo vecchio idolo, si 

aggiunge una nuova folla di adepti assetati di slogan facili facili e di frasine a effetto, cose che il Rossi pare ormai a produrre con discreta padronanza tra un "oooh" e un "eeeh". La 

trionfale tournee viene documentata nel live Fronte del palco, che dell'antecedente (di soli sei anni) "Va bene va bene così" è solo pallida imitazione, pur nella grandeur del nuovo corso.

Dopo una breve sosta, Vasco torna nel 1993 con Gli spari sopra, disco che se da un lato rattrista per il tentativo di "ringiovanire" l'immagine del musicista con un improbabile look da hard-rocker in motocicletta con capelli lunghi e bandana, stivali e jeans sdruciti, chiodo e 

occhiali da sole, dall'altro rincuora un po' sul versante musicale, contenendo alcune delle canzoni più riuscite del "secondo periodo" ("Vivere", "Gabri", "Stupendo!", "L'uomo che hai di fronte") in una notevole varietà di stili e suoni, con una band di supporto notevolmente 

affiatata (la Steve Rogers Band lo aveva lasciato qualche anno prima in cerca di gloria).
E', ahimè, l'ultimo colpo di coda del vecchio leone; il successivo Nessun pericolo per te (1996) è fiacco, Canzoni per me (1998) comincia a essere irritante, Stupido Hotel (2001) e Buoni o Cattivi (2004) sono inascoltabili.

Tra raccolte, live e celebrazioni di ogni tipo, Vasco è in questi anni adorato da folle oceaniche che riempiono autodromi e stadi, e recita alla perfezione il suo ruolo di ricco intrattenitore di mezza età - forse con meno boria di altri suoi colleghi di pari, se non minore 

caratura. A lui va comunque riconosciuto il merito di aver aperto le porte del rock alle grandi masse in Italia, importando e soprattutto sdoganando presso i più una "rock'n'roll way of life" che pareva inconciliabile con l'italico modo di vivere e di pensare.

Nel 2008 Vasco Rossi rilascia Il mondo che vorrei, un album di inediti a quattro anni da Buoni o cattivi: tra i brani anche quel "Basta poco", uscito un anno prima via internet. L'opening track/ title track è una cavalcatona rockettata, scritta e studiata per essere 

cantata negli stadi: gli arrangiamenti sempre molto pacchiani, il "lalalalalala" finale e sei minuti di puro melodismo hard-rock in stile "cariatidi americane". "Gioca con me" è un po' Aerosmith rivisitati da una emo-punk-band. Il Vasco di oggi è questo, obbligato in un angolo 

a compiacere le migliaia e migliaia di fans che comprano i suoi dischi, che indossano le t-shirt con il suo faccione, che riempiono i sansiri. Conscio di questo, il "Blasco" ricama una dozzina di brani con tutto ciò che gli è richiesto: melodia, tanta melodia, rifforama 

chitarristico da capelli lunghi al vento e qualche pera in vena, cavalcatone chitarristiche con qualche arrangiamento orchestrale, ritornello catchy al primo ascolto.
Insomma, Vasco Rossi fa il dovuto. E' ormai un patto di sangue tra lui e il suo pubblico. Lui 

regala loro un album di inediti ogni 3/4 anni e una decina di concerti all'anno in estate. Loro ricambiano comprando qualsiasi cosa abbia il suo marchio. In Italia, svanito Renato Zero e il suo circolo di adepti sorcini, è l'unico che vanta questo seguito da politica "do ut des".

Non è un disco di musica, da molto Vasco Rossi non fa dischi di musica (primissimi anni Novanta). I suoi sono prodotti commerciali, scrive canzoni per la pubblicità e per i fans. Che 

poi gli riesca anche discretamente è probabilmente dovuto ad un innato talento melodico. E il talento non lo si perde per strada, quando lo si ha. Vasco Rossi ce l'ha, ma oggi prevale il commercio e il compiacimento.

Vasco Rossi nel frattempo annuncia "mi dimetto da rockstar" nel corso di un'intervista televisiva, ma continua a riempire gli stadi. Ormai è talmente nazionalpopolare da diventare oggetto di un video-tape tra il legal e l'illegal, trasmesso nell'ultima puntata di "Report" di 

Milena Gabanelli. Trasversale ovunque lo si voglia leggere. È un totem. E di contro il totem regala. Regala stornelli da ricantare sotto la doccia o in macchina, da ascoltare con l'iPod, mentre si cammina per strada. Sono cose semplici. Devono essere cose semplici. Sono 

colonne sonore per l'adolescente e per l'operaio, per l'impiegato e il professionista. Deve essere capito da tutti. Difficile quindi che possa sfuggire a certo snobismo che ha 

accompagnato, accompagna e accompagnerà Vasco, fino a ché vorrà salire su un palco. Questione tra l'altro messa di recente in discussione, non si sa se per motivi promozionali o altro.

Il Rossi è ormai oggi un italiano medio, un po' calvo, un po' arrotondato. Sfugge anche alle critiche di chi lo vorrebbe un rocker decaduto, come il Jeff Bridges di "Crazy Heart". Vasco Rossi è un Battisti cresciuto sul finire degli anni Settanta e vissuto nella bambagia degli 

Ottanta. Vasco Rossi è questo, è San Remo, è nazional-popolare, anche se interpreta il ruolo del "fuori sistema", dell'alternativo, del ribelle. Ma quel tipo di ribelle che alla fine piace anche alla nonna. Un rebel with a cause, insomma. Il maledetto di famiglia, a cui tutti vogliono tanto bene.

Nel 2011 esce Vivere o niente, un nuovo disco di inediti senza infamia né lode. Il solito Vasco. Ad aprire "Vivere non è facile", un mantra da cantare, carne appetitosa per i pubblicitari, rima da regalare a tutti quelli a cui la vita sta girando un po' storta. È la captatio 

benevolontiae che fattura, bellezza. C'è dentro tutto Vasco: il passo lento, la melodia, l'incedere più ritmato, il passaggio hard-rock, l'assolo di chitarra. Ti ritrovi a casa dopo un paio di secondi dal play.

"Manifesto futurista della nuova umanità": titolo fuori dal comune, da manuale noiosissimo, di quelli che vedi leggere ai disoccupati fuori dalle facoltà di Filosofia. Presuntuoso e scherzoso il titolo, il brano presenta interventi vocali a rischio afonia dopo un paio di mesi di 

tour, ma perfetti per essere intonati dal pubblico astante. Vasco Rossi sa anche questo. Un disco è un tour. Un tour è un evento. E l'evento deve essere coinvolgente.
"Eh... già": l'onomatopeismo totale del cantore emiliano diventa titolo. Trascrizione del 

Rossi di oggi, formato biografia autoironica. Di un patetismo discreto. Patetismo che il video non cela del resto, con la rappresentazione di un vecchio galletto spelacchiato e impacciato. "Non sei quella che eri" non può essere stata scritta oggi. È un bozzetto sospeso tra il 

primissimo Vasco e il cantautorato bislacco di Rino Gaetano: che poi il tutto si trasformi in una paccottiglia Meat Loaf dispiace.

Vasco Rossi continua a scrivere discrete musiche e canzoni di musica leggera italiana. Gli "artisti" di zona se li sognano di notte brani del genere. Venderebbero l'anima al primo incrocio. Fatturrebbero un annetto e via. Vasco Rossi continua a farlo da trent'anni. Con 

estrema naturalezza, tra l'altro. La formula l'ha trovata. Che piaccia o meno è questione di sapori che si predilige gustare. In ogni caso ha vinto lui. Pare anche in pace con se stesso. Bontà sua.

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