Vasco Rossi
Vita spericolata
Vasco Rossi
Fonte: ondarock.it
Rossi
Vasco nasce a Zocca (Modena) nel 1952, da mamma casalinga e padre
camionista; da bambino vince il concorso "L'Usignolo d'Oro",
più tardi si diploma ragioniere.
Nel 1975 fonda "Radio Punto Zocca", una delle prime radio private in Italia, e si fa apprezzare come dj, ma sogna di fare il cantautore. Scrive canzoni nella sua cameretta e pian piano, timidamente, inizia a farle ascoltare in giro, finché nel 1977 la Jeans gli produce
il primo singolo, e l'anno dopo esce l'album Ma
cosa vuoi che sia una canzone, distribuito nella sola Emilia Romagna,
che passa praticamente inosservato. Il debutto di Vasco Rossi è un
bel disco; a metà strada tra psichedelia acustica e rock
cantautorale, racconta con
uguale trasporto di ragazze difficili, di
amori finiti o che stanno per finire, di sogni e anche di sociale.
"Silvia" e "Tu che dormivi piano" sono dolci e
straniati quadretti onirici di un mondo, quello femminile, che il
(quasi) giovane Vasco cerca di capire tra riverberi e arpeggi
acustici; sull'altro versante, è sferzante l'ironia sociale di
"Ambarabaciccicoccò", e l'amara rassegnazione della sua
controparte arrabbiata, "Ed il tempo crea eroi", country
all'italiana al gusto di incazzatura proletaria. E poi c'è "Jenny
e pazza", sette minuti di malinconia,
ballata psichedelica con
lungo assolo finale di moog à la Pfm che racconta un'altra storia
dura, di incomprensione e disagio.
Il
successivo Non siamo mica gli americani (1979), uscito per la
Carosello, replica la stessa formula, con qualche apertura in più
verso un rock sanguigno e chitarristico, e dei toni marcatamente più
salaci. E' un'altra buona prova, forse superiore alla precedente, e
rispetto a essa molto più "acida" dal punto di vista
testuale: lo si intuisce fin dalla copertina, con una bandiera a
stelle e strisce... bianca rossa e verde, e dalle memorabili "Fegato
fegato spappolato" e "(per quello che ho da fare) Faccio il
militare", inni allo scazzo più
totale e patrimonio di una
generazione, quella che esce dagli anni 70 e si avvicina agli 80, che
ha perso ogni riferimento e ogni ideale e si è ritrovata a fare i
conti con la propria individualità e il proprio individualismo,
sospesi tra il sarcasmo indirizzato verso la mentalità
bigotta e
provinciale dell'italietta conservatrice e il nichilismo di versi
come "La sera che arriva non è mai diversa dalla sera
prima/...ci vuol qualcosa per tenersi a galla sopra questa merda/ e
non importa se domani mi dovrò svegliare ancora con quel gusto in
bocca". Ma
se con questo disco il Rossi comincia a farsi notare,
è soprattutto grazie a uno degli episodi più rock e al tempo stesso
più dolci dell'album, un altro esempio di canzone-analisi su quel
mondo femminile che Vasco osserva stupito: quell'"Albachiara"
che di lì a qualche anno diventerà un inno da stadio facendo del
rocker di Zocca un mito della musica popolare italiana.
Il terzo album è del 1980 e si intitola Colpa d'Alfredo. Il "personaggio Vasco" sta cominciando a formarsi, via via allontanandosi dall'immagine del giovane ingenuo, un po' scontroso e arrabbiato, per dare vita a quella del rocker politicamente scorretto, strafottente
e straviziato. La title track, in certi
passaggi quasi un plagio degli Who di "Baba O'Riley",
racconta una storia di donne - sempre meno ragazzine innocenti o
difficili e sempre più troie (sic) - e di negri (sic) nell'interland
modenese (sic): quantomeno grottesco, di certo mai
sentito in Italia.
Per l'epoca è un bel pugno nello stomaco, ma il Rossi si può ancora
permettere di cantare tutto quello che gli passa per la testa senza
avvertire il peso che di lì a qualche anno comporterà l'essere
diventato un mito per le giovani generazioni. Per il resto,
il disco
è equamente diviso tra numeri rock talvolta davvero duri ("Asilo
Republic" è hardcore-punk allo stato brado) con testi ironici o
nonsense ("Alibi" su tutte, dall'atmosfera allucinata) e
ballate strappalacrime (la dolcissima "Anima fragile" per
voce e pianoforte, la
trasognata "Tropico del Cancro"
ispirata alla letteratura beat). Il disco ottiene un grande successo,
complici alcune stroncature da parte della critica: memorabile quella
di Nantas Salvalaggio, dopo un'apparizione televisiva: "Vasco
Rossi... Per descriverlo , mi ci
vorrebbe la penna di un Grosz,
di un Maccari: un bell'ebete, anzi un ebete piuttosto bruttino,
malfermo sulle gambe, con gli occhiali fumè dello zombie,
dell'alcolizzato , del drogato "fatto" [...] Gente della
Tv, della stampa, del governo, ma quando faremo un'indagine seria,
un
calcolo approssimativo, di tutti i giovani che si sono "fatti",
che si sono procurati un passaporto per l'altro mondo, sulle orme dei
cantori dell'eroina, come quel tale Lou Reed, che a Milano si
pronuncia giustamente Lùrid?".
Il
nostro ormai richiama discrete folle nei suoi concerti, in cui è
supportato dalla Steve Rogers Band di Massimo Riva e Maurizio
Solieri. Ma è col disco successivo, Siamo solo noi (1981), che il
nome di Vasco Rossi comincia davvero a essere sulla bocca di
tutti,
quantomeno dei giovani rockettari: sempre più virato verso
l'hard-rock, sia nei pezzi più duri che nelle ballate, il disco
bissa il successo del precedente, grazie alla potenza della title
track, anthem generazionale per cori da stadio con alcuni tra i versi
più immediati e
coinvolgenti del nostro, dichiarazione di guerra
alla vita borghese ("Siamo solo noi/ che non abbiamo più
rispetto per niente, neanche per la mente/ Siamo solo noi/ che non
abbiamo più niente da dire, sappiamo solo vomitare/ Siamo solo noi/
quelli che ormai non credono più a niente, e vi fregano sempre").
Con il lavoro successivo, il Rossi tenta il grande salto. Vado al massimo (1982), questo il titolo dell'album, è anche il titolo della canzone, un reggae sbilenco con refrain rock e testo completamente privo di senso, con cui il nostro si presenta, barcollante (davvero ubriaco o
attore calato nella parte?), sul palco del tempio della
canzone(tta) italiana, il Festival di Sanremo. Si classifica ultimo -
dopo un esordientissimo Zucchero - come è giusto che sia;
l'obbiettivo è comunque raggiunto, Vasco Rossi esce dalla
nicchia dell'artista di culto, ora
tutti sanno che c'è in
circolazione questo personaggio poco raccomandabile da cui tenere
lontani i propri figli. Va detto che Vado al massimo è uno dei
dischi più belli di Vasco: abbandonate momentaneamente le eccessive
ruvidezze hard-rock a favore di pezzi più
"commerciali" ma
mai troppo ruffiani, con testi al solito ironici e dissacranti quando
non apertamente provocatori ("Splendida giornata" oltre
alla title track), contiene anche alcune ballate davvero riuscite
("Canzone", commovente nella sua aria di rassegnata
malinconia, "La noia" e "Ogni volta").
Il Rossi torna a Sanremo l'anno dopo, stavolta con un lentone che diventerà il suo inno più famoso (in Riviera andrà ancora male: penultimo, ma Vasco si aggiudicherà il Festivalbar). Tratta dal nuovo Lp Bollicine, "Vita spericolata" non ha bisogno di presentazioni; i suoi
versi più celebri, "Voglio una
vita maleducata/ voglio una vita come Steve McQueen/ voglio una vita
che se ne frega/ che se ne frega di tutto sì", celebrazione del
nichilismo di provincia di questo ragazzotto cresciuto a punk e
oratorio, diventano patrimonio comune di chi negli
scintillanti anni
80 ormai in pieno corso fa fatica a sentirsi a proprio agio (e la
title-track fa riferimento a uno dei simboli della nuova generazione,
la Coca-Cola dei paninari... anche se forse a voler essere maliziosi
qualche doppio senso si trova). E poco importa se il buon
Vasco,
considerato ormai "il" rocker italiano, nei vizi e nei
lustrini di questi anni 80 ci sta comodamente sprofondando; è il
personaggio che conta, è la sua figura ancora magra e sbattuta, che
si presenta sui palchi di tutta Italia con magliette sdrucite, look
da tossico di
strada (come sono lontani i futuri agghindamenti da
pagliaccio...), capelli incolti e occhiali da sole anche di notte,
aggrappato all'asta del microfono a urlarci dentro i suoi versi,
spesso stridenti nella loro intimità rivelatrice del carattere
fragile dell'uomo con l'immagine strafottente del personaggio
(esemplare "Una canzone per te").
L'irruenza di questi concerti viene immortalata in un disco davvero bello, il live Va bene, va bene così (1984), che contiene oltre al nuovo lentone d'atmosfera che dà il titolo al lavoro (ancora una storia difficile, ancora un amore-non amore da trascinare con malinconia e
rassegnazione), otto brani tra i più rappresentativi di questa prima
parte di carriera del Rossi, suonati con grinta e passione da una
band al massimo delle sue possibilità. Lo spettacolo è davvero
hard-rocking, le chitarre la fanno da padrone e Vasco urla come un
dannato...
Da questo momento in poi qualcosa comincia a incrinarsi. Evento scatenante è l'arresto del nostro per possesso di stupefacenti (sì, proprio la coca di "Bollicine"); Vasco sembra essersi spinto troppo in là e decide di darsi una ripulita (anche perché siamo pur sempre in Italia,
essere drogati qui non è mai stato cool
- e comunque 22 giorni di galera non fanno bene a nessuno). Cosa
succede in città (1985) vira sul pop-rock da classifica, con una
giusta dose di ritmiche funk e le immancabili due o tre ballatone
vecchio stile; grazie anche ai testi,
forse per l'ultima volta più
divertiti e ironici che altro ("Ti taglio la gola" è in
questo senso davvero un capolavoro), l'album è comunque piacevole,
ma già si sente la mancanza di quella grinta e di quella
strafottenza che avevano caratterizzato la produzione del Rossi
negli
anni appena trascorsi. E il successivo C'è chi dice no (1987)
conferma la tendenza: aumenta il numero di brani riflessivi (invero
forse i più riusciti, tra cui l'opener "Vivere una favola"
e la ballata "Ridere di te"), compaiono per la prima volta
testi pessimisti e cupi, le
tastiere atmosferiche diventano padrone
del campo. Vasco si lascia definitivamente alle spalle il passato da
giovane rocker incazzoso e indossa, guardare la foto di copertina per
credere, i panni del cantautore introverso, che passa da riflessioni
più o meno riuscite su
non ben specificati mali oscuri che ammorbano
il mondo ad agrodolci pensieri sul tempo che passa, con poche puntate
verso il rock che fu ("Lunedì", quantomeno divertente, ma
anche l'inutile "Blasco Rossi").
Liberi liberi (1989) è forse il peggior disco fino a qui, con solo un paio di buoni spunti ("Dillo alla luna", "Tango della gelosia") e tutto il resto sperso tra tentativi di revival rock e innocui poppettini.
Com'è
prassi, all'annacquarsi della genuinità della proposta musicale del
nostro corrisponde un suo successo sempre maggiore, che lo porta a
riempire gli stadi nel tour del 1990; alla prima generazione di fan
del rocker emiliano, che continua a seguire il suo vecchio idolo, si
aggiunge una nuova folla di adepti assetati di slogan facili facili e
di frasine a effetto, cose che il Rossi pare ormai a produrre con
discreta padronanza tra un "oooh" e un "eeeh". La
trionfale tournee viene documentata nel live Fronte del palco, che
dell'antecedente (di soli sei anni) "Va bene va bene così"
è solo pallida imitazione, pur nella grandeur del nuovo corso.
Dopo
una breve sosta, Vasco torna nel 1993 con Gli spari sopra, disco che
se da un lato rattrista per il tentativo di "ringiovanire"
l'immagine del musicista con un improbabile look da hard-rocker in
motocicletta con capelli lunghi e bandana, stivali e jeans sdruciti,
chiodo e
occhiali da sole, dall'altro rincuora un po' sul versante
musicale, contenendo alcune delle canzoni più riuscite del "secondo
periodo" ("Vivere", "Gabri", "Stupendo!",
"L'uomo che hai di fronte") in una notevole varietà di
stili e suoni, con una band di supporto notevolmente
affiatata (la
Steve Rogers Band lo aveva lasciato qualche anno prima in cerca di
gloria).
E',
ahimè, l'ultimo colpo di coda del vecchio leone; il successivo
Nessun pericolo per te (1996) è fiacco, Canzoni per me (1998)
comincia a essere irritante, Stupido Hotel (2001) e Buoni o Cattivi
(2004) sono inascoltabili.
Tra raccolte, live e celebrazioni di ogni tipo, Vasco è in questi anni adorato da folle oceaniche che riempiono autodromi e stadi, e recita alla perfezione il suo ruolo di ricco intrattenitore di mezza età - forse con meno boria di altri suoi colleghi di pari, se non minore
caratura. A lui va comunque riconosciuto il merito di aver aperto le
porte del rock alle grandi masse in Italia, importando e soprattutto
sdoganando presso i più una "rock'n'roll way of life" che
pareva inconciliabile con l'italico modo di vivere e di pensare.
Nel 2008 Vasco Rossi rilascia Il mondo che vorrei, un album di inediti a quattro anni da Buoni o cattivi: tra i brani anche quel "Basta poco", uscito un anno prima via internet. L'opening track/ title track è una cavalcatona rockettata, scritta e studiata per essere
cantata negli stadi: gli arrangiamenti sempre molto
pacchiani, il "lalalalalala" finale e sei minuti di puro
melodismo hard-rock in stile "cariatidi americane". "Gioca
con me" è un po' Aerosmith rivisitati da una emo-punk-band. Il
Vasco di oggi è questo, obbligato in un angolo
a compiacere le
migliaia e migliaia di fans che comprano i suoi dischi, che indossano
le t-shirt con il suo faccione, che riempiono i sansiri. Conscio di
questo, il "Blasco" ricama una dozzina di brani con tutto
ciò che gli è richiesto: melodia, tanta melodia, rifforama
chitarristico da capelli lunghi al vento e qualche pera in vena,
cavalcatone chitarristiche con qualche arrangiamento orchestrale,
ritornello catchy al primo ascolto.
Insomma,
Vasco Rossi fa il dovuto. E' ormai un patto di sangue tra lui
e il suo pubblico. Lui
regala loro un album di inediti ogni 3/4 anni
e una decina di concerti all'anno in estate. Loro ricambiano
comprando qualsiasi cosa abbia il suo marchio. In Italia, svanito
Renato Zero e il suo circolo di adepti sorcini, è l'unico che vanta
questo seguito da politica "do ut des".
Non
è un disco di musica, da molto Vasco Rossi non fa dischi di
musica (primissimi anni Novanta). I suoi sono prodotti commerciali,
scrive canzoni per la pubblicità e per i fans. Che
poi gli riesca
anche discretamente è probabilmente dovuto ad un innato talento
melodico. E il talento non lo si perde per strada, quando lo si ha.
Vasco Rossi ce l'ha, ma oggi prevale il commercio e il
compiacimento.
Vasco Rossi nel frattempo annuncia "mi dimetto da rockstar" nel corso di un'intervista televisiva, ma continua a riempire gli stadi. Ormai è talmente nazionalpopolare da diventare oggetto di un video-tape tra il legal e l'illegal, trasmesso nell'ultima puntata di "Report" di
Milena Gabanelli. Trasversale ovunque lo si
voglia leggere. È un totem. E di contro il totem regala. Regala
stornelli da ricantare sotto la doccia o in macchina, da ascoltare
con l'iPod, mentre si cammina per strada. Sono cose semplici. Devono
essere cose semplici. Sono
colonne sonore per l'adolescente e per
l'operaio, per l'impiegato e il professionista. Deve essere capito da
tutti. Difficile quindi che possa sfuggire a certo snobismo che ha
accompagnato, accompagna e accompagnerà Vasco, fino a ché vorrà
salire su un palco. Questione tra l'altro messa di recente in
discussione, non si sa se per motivi promozionali o altro.
Il
Rossi è ormai oggi un italiano medio, un po' calvo, un po'
arrotondato. Sfugge anche alle critiche di chi lo vorrebbe un rocker
decaduto, come il Jeff Bridges di "Crazy Heart". Vasco
Rossi è un Battisti cresciuto sul finire degli anni Settanta e
vissuto nella bambagia degli
Ottanta. Vasco Rossi è questo, è
San Remo, è nazional-popolare, anche se interpreta il ruolo del
"fuori sistema", dell'alternativo, del ribelle. Ma quel
tipo di ribelle che alla fine piace anche alla nonna. Un rebel with a
cause, insomma. Il maledetto di famiglia, a cui tutti vogliono tanto
bene.
Nel
2011 esce Vivere o niente, un nuovo disco di inediti senza infamia né
lode. Il solito Vasco. Ad
aprire "Vivere non è facile", un mantra da cantare, carne
appetitosa per i pubblicitari, rima da regalare a tutti quelli a cui
la vita sta girando un po' storta. È la captatio
benevolontiae che
fattura, bellezza. C'è dentro tutto Vasco: il passo lento, la
melodia, l'incedere più ritmato, il passaggio hard-rock, l'assolo di
chitarra. Ti ritrovi a casa dopo un paio di secondi dal play.
"Manifesto
futurista della nuova umanità": titolo fuori dal comune, da
manuale noiosissimo, di quelli che vedi leggere ai disoccupati fuori
dalle facoltà di Filosofia. Presuntuoso e scherzoso il titolo, il
brano presenta interventi vocali a rischio afonia dopo un paio di
mesi di
tour, ma perfetti per essere intonati dal pubblico astante.
Vasco Rossi sa anche questo. Un disco è un tour. Un tour è
un evento. E l'evento deve essere coinvolgente.
"Eh...
già": l'onomatopeismo totale del cantore emiliano diventa
titolo. Trascrizione del
Rossi di oggi, formato biografia
autoironica. Di un patetismo discreto. Patetismo che il video non
cela del resto, con la rappresentazione di un vecchio galletto
spelacchiato e impacciato. "Non sei quella che eri" non può
essere stata scritta oggi. È un bozzetto sospeso tra il
primissimo
Vasco e il cantautorato bislacco di Rino Gaetano: che poi il tutto si
trasformi in una paccottiglia Meat Loaf dispiace.
Vasco
Rossi continua a scrivere discrete musiche e canzoni di musica
leggera italiana. Gli "artisti" di zona se li sognano di
notte brani del genere. Venderebbero l'anima al primo incrocio.
Fatturrebbero un annetto e via. Vasco Rossi continua a farlo
da trent'anni. Con
estrema naturalezza, tra l'altro. La formula l'ha
trovata. Che piaccia o meno è questione di sapori che si predilige
gustare. In ogni caso ha vinto lui. Pare anche in pace con se stesso.
Bontà sua.
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